lunedì 2 aprile 2007

Aprile. Napoli. Cena per dodici con tovaglia ricamata.





Aprile 2007. Napoli. Cena per dodici con tovaglia ricamata. Il primo incontro, appena entrata in cucina, è stato con una squisitezza meridionale che fa parte anche della mia storia: la mela annurca. Piccola, rossa, compatta, acidula, fondente, aspra e dolce insieme, profumata, la mela annurca merita inchini. Sarebbe andata nell’Insalata. Come sempre, l’insalata aveva il compito di illudere che fosse una cena “leggera”.

In cucina due cuoche scatenate, Ester e Antonella, e una moralista, Anita. La triade è difficilmente scindibile; mi chiedo come agisca tale concerto di pensieri e azioni in altri campi. Le due cuoche operavano intorno a una Genovese, una Pastiera e dei Friarelli, gridando all’unisono che il Catone Anita, che si aggirava sorniona, tacita e solerte, aggiustando, portando, togliendo, servendo e rassettando, avesse loro impedito di darci giù come avrebbero voluto. Ma come, avrebbe detto la parca alle pantagrueliche: dopo una giornata di lavoro dura come quella che tutti abbiamo avuto, vi pare ci si possa mettere a tavola ingozzandosi di ogni che?

Tutto è cominciato da una mia scostumatezza. Avevo chiesto alle tre cortesi amiche di cucinare, per la nostra visita napoletana, i friarelli, per i quali Ester, la padrona di casa, va famosa. Di più. Avevo chiesto di permettermi di impicciarmi a fondo. Le tre aggiungendoci la nota ospitalità partenopea, hanno messo su, alla faccia delle remore salutiste, una cena che lèvati.

Non passerò oltre prima di aver detto che la cucina per immensità, agio, attrezzature, spazi, scaffali, armadi, forni e fornelli ha desta ogni invidia. E’ nuova e deve ancora, mi pare, coniugarsi del tutto con la padrona di casa, che la ama certamente – come potrebbe essere che non la ami? – ma ho l’impressione che Ester si debba ancora abbandonare, lasciar andare a tutte le possibilità che la mirabile stanza offre. Dagli abissi della mia impavida screanzatezza spero che la festosa cena di cui mi sento agente provocatore abbia contribuito allo scopo.

C’erano le ricche polpe di una maialina di casa, trasformate in Speck partenopei e pancette. La maialina avrebbe avuto anche un nome, ma scrupoli anti antropofagici hanno impedito a Ester di ricordarlo.

C’erano le Tartine con gelatina di Moccia, rinomato fornitore di gourmandises dolci e salate delle più accorte ed esigenti case napoletane.

Seguivano dei mezzi ziti di Setaro conditi con la Genovese, che abbiamo appreso con timor panico aver cotto 13 ore; quindi la Carne che aveva dato tutti i suoi succhi alle cipolle delle quali è fatta la crema cupamente dorata della genovese, tagliata a fettine e di nuovo cosparsa di un po’ di quella salsa squisita. Ester andava dicendo impunita, fintamente allarmata e golosamente timorosa di non stare alle regole, che la madre avrebbe avuto da ridire: la carne della genovese non si porta in tavola. Oramai è spossata. Noi ce la siamo mangiata con gusto, insieme alla salubre Insalata. Questi spettri di parenti puntigliosamente e surrealmente commentanti ogni esecuzione e ricetta ci avrebbero accompagnati per tutta la cena, diventando pericolosamente vispi e presenti al momento della pastiera, chiosata da quelle voci assenti anche sulla quantità di chicchi di grano.

C’erano gli ottimi Friarelli, causa apparente di tutta questa macchina. Al tempo stesso dolci e piccanti. Anche qui, il magico numero tredici. Tredici le ore di cottura della genovese, tredici i mazzi di broccoli le cui sole tenere cime erano state amorosamente trasformate in friarelli.

Sono poi arrivati gli imponenti Formaggi, tra cui spiccava un caciocavallo podalico, accompagnati da varie Composte: gelatina di petali di rosa, composta di peperoni, di cipolle, di mela cotogna.

Infine la gloriosa Pastiera, fatta dalle manine sante della padrona di casa seguita dallo sguardo vigile dei penati di famiglia, di cui mi sono fatta dire vita morte e miracoli. Della genovese, dei friarelli, di quest’ultima ho acquisito ricette.

Era stata allestita una tavola per dodici come si faceva una volta, con tovaglia di lino ricamata, bicchieri di cristallo, fiori. Ester rivelava così una certa tradizione di imbandimenti e ricevimenti che è stata confermata dal fatto che a un certo punto è uscita anche una raccolta di volanti foglietti sparsi e vecchie ricette ingiallite, amorosamente conservate in un contenitore appositamente creato per loro. La gentilezza della padrona di casa mi ha permesso non solo di toccare le reliquie, ma anche di fotografarne alcune e di acquisire la ricetta di pastiera, lì chiamata Pizza di grano, tra esse custodita.

La serata è stata fittamente trapunta di chiacchiere e conversazioni dei molto soddisfatti ospiti in ogni pizzo della casa, tra divani e cucina, fino a notte alquanto fonda.

Da queste chiacchiere, una perla.
”La faccia mia sotto ai piedi vostri”.
Così esordiva il minaccioso messaggino con cui Anita-Catone ingiungeva alle due ammannitici di cibi Ester e Antonella di contenersi, di limitarsi, di astenersi. Ci si sottomette all’estremo per dire che subito dopo si comanda, si impone, si detta legge.
Da tenere presente.

Più morbido, questo altro modo di dire:
“Grazie agli occhi vostri”.
Il profferente tale frase suggerisce che l’insignificante, il piccolo, il minoritario, che gli appartiene, viene valorizzato dallo sguardo benevolo di chi guarda, al quale viene graziosamente conferito il potere di elevare e imbellire.







 








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